V
Leggendo alcuni saggi che trattano delle intersezioni tra omosessualità e scienze sociali, soprattutto con la psicologia, mi sono ritrovato a dover riflettere su, e di conseguenza a correggere un errore terminologico: ossia OMOFOBIA definito come l'odio, o avversione per gay e lesbiche.
Come giustamente questi studi in più di un'occasione mettono in rilievo, non si può parlare, psicologicamente (né a maggior ragione psicopatologicamente) di fobia per questo atteggiamento-comportamento. data la sua origine sociale e NON psichica, come accade per le altre fobie (agorafobia, aracnofobia...).La questione terminologica parrebbe lasciare il tempo che trova, invece ha implicazioni ideologiche ed etiche importanti se "nomina sunt consequentia rerum"...
Quindi pregiudizio antigay interiorizzato sembrerebbe la definizione più rispondente alla realtà, anche se omofobia è un termine che ha il grosso vantaggio di essere sintetico e di gran Il fatto è che tutti i ragazzi e uomini gay che ho conosciuto non sono esenti da aspetti omofobici che li portano a stigmatizzare o per burla o per rabbia (...ahimè!) l' effeminatezza, più o meno palese, di altrettanti consimili, alla forsennata ricerca di una sedicente ideale mascolinità, incarnata secondo i più nei maschi eterosessuali.
domenica 11 novembre 2007
venerdì 16 marzo 2007
Questa scrittura aforistica è frutto di alcune riflessioni (o autoriflessioni) che hanno occupato i miei pensieri sul mondo che mi circonda....
I
Se l’omofobia è la paura irrazionale che parla la lingua dell’intolleranza e dell’odio per l’omosessuale, per analogia con eterofobia, o se si vuole con miso-eterosessualismo si può intendere l’altrettanto fobica avversione dei gay per gli eterosessuali. L’origine prima di tali fobie risiede nella paura dell’ “alterità”, paura che può originare odio anche verso molti altri bersagli come lo straniero, (xenofobia) o le donne, (misoginia)…C’è qualcosa di diverso tra l’omofobia e gli altri tipi di paure?
II
Si può pensare alla dialettica dei termini omofobia-eterofobia secondo due modi: o si considerano complementari, aderenti e speculari; oppure si riconoscono discrepanze e disallineamenti concettuali. L’una o l’altra delle considerazioni implica importanti conseguenze ideologiche.
III
Se si considerano i due termini in modo complementare si dovrebbe così postulare due gruppi sociali nella condizione di antagonisti in un sistema che canonizza, prevede, accoglie e dà pari dignità ad entrambi e che riesce a mantenersi in vita sia grazie all’uno, sia grazie all’altro.
Qualora invece considerassimo i due concetti come a-speculari, ecco che solo l’eterofobia assumerebbe la caratteristica di una risposta reattiva, poiché espressione di una minoranza che mette in crisi il detto sistema sociale. Tant è vero che esiste un’eterofobia perché logicamente e storicamente c’è prima un’omofobia, per questo i due status di minoranza omosessuale e maggioranza eterosessuale non permettono la parità e la specularità di tali “fobie”. Anzi, essendo l’eterofobia una risposta reattiva, si trova nella situazione di essere dipendente e sottomessa alla prima.
IV
Se in una situazione ab-soluta rispetto alla realtà attuale, dove al venir meno dell’omofobia eterosessuale corrispondesse un venir meno dell’eterofobia gay, essendo la seconda la variabile dipendente della prima, ossia una sua risposta reattiva, avremmo la prova di essere in un sistema sociale ideale o qualora dovessimo riferirci al nostro, che il sistema sociale starebbe subendo profonde trasformazioni. Bisognerebbe discutere su cosa intendiamo noi per ideale e allora apriremmo il vaso di pandora del relativismo etico e non solo…
Se l’omofobia è la paura irrazionale che parla la lingua dell’intolleranza e dell’odio per l’omosessuale, per analogia con eterofobia, o se si vuole con miso-eterosessualismo si può intendere l’altrettanto fobica avversione dei gay per gli eterosessuali. L’origine prima di tali fobie risiede nella paura dell’ “alterità”, paura che può originare odio anche verso molti altri bersagli come lo straniero, (xenofobia) o le donne, (misoginia)…C’è qualcosa di diverso tra l’omofobia e gli altri tipi di paure?
II
Si può pensare alla dialettica dei termini omofobia-eterofobia secondo due modi: o si considerano complementari, aderenti e speculari; oppure si riconoscono discrepanze e disallineamenti concettuali. L’una o l’altra delle considerazioni implica importanti conseguenze ideologiche.
III
Se si considerano i due termini in modo complementare si dovrebbe così postulare due gruppi sociali nella condizione di antagonisti in un sistema che canonizza, prevede, accoglie e dà pari dignità ad entrambi e che riesce a mantenersi in vita sia grazie all’uno, sia grazie all’altro.
Qualora invece considerassimo i due concetti come a-speculari, ecco che solo l’eterofobia assumerebbe la caratteristica di una risposta reattiva, poiché espressione di una minoranza che mette in crisi il detto sistema sociale. Tant è vero che esiste un’eterofobia perché logicamente e storicamente c’è prima un’omofobia, per questo i due status di minoranza omosessuale e maggioranza eterosessuale non permettono la parità e la specularità di tali “fobie”. Anzi, essendo l’eterofobia una risposta reattiva, si trova nella situazione di essere dipendente e sottomessa alla prima.
IV
Se in una situazione ab-soluta rispetto alla realtà attuale, dove al venir meno dell’omofobia eterosessuale corrispondesse un venir meno dell’eterofobia gay, essendo la seconda la variabile dipendente della prima, ossia una sua risposta reattiva, avremmo la prova di essere in un sistema sociale ideale o qualora dovessimo riferirci al nostro, che il sistema sociale starebbe subendo profonde trasformazioni. Bisognerebbe discutere su cosa intendiamo noi per ideale e allora apriremmo il vaso di pandora del relativismo etico e non solo…
domenica 25 febbraio 2007
Pascoli e la psicanalisi
Questo materiale deriva da ciò che ho trovato nella rete riguardo l'accostamento alla vita e alle opere di Pascoli secondo una chiave di lettura psicodinamica (psicanalitica), che in parte ho usato per una lezione svolta durante il mio tirocinio.
Fin dall’esordio del Pascoli sulla scena letteraria la critica ha interpretato alcune delle poesie più belle del poeta come connesse ai suoi complessi rapporti familiari: la nostalgia e il dolore per la morte dei genitori, il rapporto morboso e ambiguo avuto con le sorelle Ida e Maria. Di conseguenza la vita familiare e sentimentale di Giovanni Pascoli è stata rivisitata e analizzata da più punti di vista.
La singolare storia di questa costellazione familiare è stata poi accennata da Cesare Garboli in un saggio letterario che allude all ‘ipotesi del rapporto incestuoso tra il poeta e le sorelle o una di esse (Garboli, Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli; Einaudi 1990).
Nel giugno scorso è stato pubblicato il libro di Vittorino Andreoli I segreti di casa Pascoli (BUR), in cui il famoso neurologo e psichiatra unisce all’ analisi oggettiva, basata su una ammirevole ricerca negli archivi pascoliani, un’interpretazione psicologica della storia familiare del poeta. Con un metodo in fondo sia psicoanalitico che documentario, Andreoli parte dall’esame di alcuni interessantissimi documenti per arrivare all’ipotesi dell’incesto, non suffragato però nè da testimonianze né da prove.
Per uno psichiatra, la realtà soggettiva ha lo stesso valore e la stessa dignità della realtà oggettiva: dato forse filosoficamente giusto, ma che d’altra parte non invera un’interpretazione che potrebbe purtroppo soltanto soddisfare la curiosità morbosa di epigoni e critici.
Premessa del lavoro di Andreoli è che la psicologia si è già occupata del mondo della creatività e di alcuni artisti del passato, analizzando quali circostanze e vissuti possano strutturare una personalità creativa e portare alla nascita di singole opere, in un’ ottica che non esclude né pretende di estrapolare meccanismi comuni alla creatività. A complicare l’impostazione del lavoro c’è però anche l’assunto che la psicologia deve necessariamente procedere con una metodologia scientifica, il che la differenzia sostanzialmente dalla critica letteraria.
Il nesso tra follia (o comunque malessere psichico) e creatività era stato individuato e indagato già da Freud (cfr. le ricerche sulla Gradiva di Jensen, 1907; su Dostoevskij, 1928; sul Mosè di Michelangelo, 1914); esistono, di altri psicologi, studi su Van Gogh, su Leonardo, Leopardi.
D’altro canto sono esistiti artisti assolutamente “normali”, e comunque Giovanni Pascoli (su questo Andreoli è molto chiaro) non può essere ascritto a una vera e propria patologia psichica, ma semmai ad una personalità con alcune caratteristiche infantili e con un Edipo non risolto, una forte fragilità emotiva, e da ultimo una dipendenza dall’alcool che lo porterà alla morte. Di chi invece lo psichiatra dà una diagnosi (di isteria) è Maria, la sorella minore che diventerà deus ex machina della vita del poeta e dell’altra sorella, Ida, di due anni più grande di lei e di otto minore di Giovanni.
La contiguità tra psicoanalisi e arte è un fatto, e nel caso del poeta decadente tematiche come quella del “fanciullino” e una costellazione familiare rappresentata in tutta la sua complessità in moltissime liriche non possono che intrigare lo studioso dell’inconscio.
Le fonti della ricerca sono fonti letterarie, in primis, ma anche gli epistolari del Pascoli, tra cui molte lettere inedite; gli scritti della sorella Maria sul poeta (Lungo la vita di Giovanni Pascoli, Mondatori 1961), nonché l’osservazione diretta da parte dello psichiatra della casa di Castelvecchio e della tomba del poeta.
Andreoli ricostruisce con cura la storia familiare a partire dalla tragica notte del 10 agosto 1867, quando il padre Ruggero viene assassinato, fino al momento in cui Giovanni, ormai adulto e docente in via di affermazione professionale, riesce ad avere con sé a Massa le due sorelle minori togliendole dal collegio dove erano cresciute. A questo punto inizia il dramma: la forte attrazione, il legame morboso e intenso che nasce tra il poeta e le due sorelle ma in particolare con Ida, che viene rappresentata nella sua bellezza e carnalità dal poeta stesso in alcuni schizzi che il libro riporta come documenti di particolare interesse.
Schizzi e lettere che esprimono un sentimento non fraterno ma morboso e diventano la base dell’ipotesi di Andreoli: un legame d’amore e attrazione fisica tra Giovanni e Ida, un amore nevrotico con Maria, sublimato nel misticismo; l’equilibrio tra i tre elementi di questa nuova famiglia avrebbe rappresentato per Pascoli la riattualizzazione dell’amore edipico mediante la proiezione della figura della madre su Ida e la propria immedesimazione col padre morto: in questo modo finalmente il genitore prematuramente perso, rivivificato in lui, poteva prendersi cura della prole, rappresentata dalla piccola Maria.
La sorella minore però a un certo punto comincia a trafficare perché Ida vada in sposa: questo improvvisamente e apparentemente senza motivo…perché non sposarsi invece lei stessa, o far sposare Giovanni?
Anche a causa di una interruzione delle fonti epistolari, lo psichiatra ipotizza che Maria si sia accorta che Ida e Giovanni stavano per varcare o avevano varcato i confini leciti di un amore fraterno e abbia voluto riequilibrare il nucleo familiare espellendo Ida, destinata per la propria femminilità prepotente a diventare moglie e madre (cosa che l’asessuata Maria non sentirà mai il bisogno di fare).
Anche la sparizione delle lettere scritte dal Pascoli in vari mesi del 1894 viene attribuito alla volontà di Maria, custode dell’archivio Pascoli, di mantenere un’immagine dignitosa e positiva del fratello, di cui ad esempio cercherà negli anni a seguire di nascondere l’alcolismo.
Le lettere del 1895 mostrano un poeta in bilico tra i sentimenti per l’una e per l’altra sorella, che appaiono in opposizione: due legami esclusivi, violenti, tormentati da gelosie che di solito non trovano spazio in una famiglia d’origine, ma somigliano a quelle vissute in un amore di coppia.
La devozione di Maria al fratello è in realtà un amore mortifero, tanto è vero che Andreoli dimostra come le nozze combinate di Ida nel 1895 diventino per Giovanni l’inizio della fine: nonostante la fulgida carriera e i successi letterari in aumento, il poeta comincerà a bere nutrendo così la cirrosi epatica che lo porterà a morte, e trascorrerà il resto della sua vita (interrottasi nel 1912) vivendo affettivamente una situazione di crescente dolore, isolamento, chiusura nell’ambito soffocante della presenza di Maria, sconforto crescente testimoniato dalle numerose epistole ad amici e alla stessa Ida. Di altri eventi della vita sentimentale del Pascoli si registra soltanto un tentativo di sposare la cugina Imelde Morri, tristemente naufragato al secondo incontro tra i due, pare anche qui per l’intervento malevolo di Maria.
Certo la parte più “scabrosa” dell’ipotesi di Andreoli, quella dell’incesto con Ida, non è suffragata da prove oggettive e sicuramente una simile ricostruzione dei fatti nulla aggiunge alla bellezza delle poesie pascoliane e ai significati individuati dalla critica letteraria.
Ma Andreoli è appunto psichiatra, non critico né letterato né storico: la descrizione che egli fa delle sue visite nell’ultima casa di Pascoli, in particolare alla camera della religiosissima Maria e alla cappella dove è conservata la tomba del poeta, sebbene non oggettiva è affascinante e forse portatrice di verità indimostrabili ma intimamente indiscutibili: perturbante il particolare delle fessure nel sarcofago, talmente sottili che solo Maria, di corporatura minuta quasi come una bimba, poteva continuare a toccare la salma di quel fratello così amato e idealizzato che non doveva amare altri che lei.
Fin dall’esordio del Pascoli sulla scena letteraria la critica ha interpretato alcune delle poesie più belle del poeta come connesse ai suoi complessi rapporti familiari: la nostalgia e il dolore per la morte dei genitori, il rapporto morboso e ambiguo avuto con le sorelle Ida e Maria. Di conseguenza la vita familiare e sentimentale di Giovanni Pascoli è stata rivisitata e analizzata da più punti di vista.
La singolare storia di questa costellazione familiare è stata poi accennata da Cesare Garboli in un saggio letterario che allude all ‘ipotesi del rapporto incestuoso tra il poeta e le sorelle o una di esse (Garboli, Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli; Einaudi 1990).
Nel giugno scorso è stato pubblicato il libro di Vittorino Andreoli I segreti di casa Pascoli (BUR), in cui il famoso neurologo e psichiatra unisce all’ analisi oggettiva, basata su una ammirevole ricerca negli archivi pascoliani, un’interpretazione psicologica della storia familiare del poeta. Con un metodo in fondo sia psicoanalitico che documentario, Andreoli parte dall’esame di alcuni interessantissimi documenti per arrivare all’ipotesi dell’incesto, non suffragato però nè da testimonianze né da prove.
Per uno psichiatra, la realtà soggettiva ha lo stesso valore e la stessa dignità della realtà oggettiva: dato forse filosoficamente giusto, ma che d’altra parte non invera un’interpretazione che potrebbe purtroppo soltanto soddisfare la curiosità morbosa di epigoni e critici.
Premessa del lavoro di Andreoli è che la psicologia si è già occupata del mondo della creatività e di alcuni artisti del passato, analizzando quali circostanze e vissuti possano strutturare una personalità creativa e portare alla nascita di singole opere, in un’ ottica che non esclude né pretende di estrapolare meccanismi comuni alla creatività. A complicare l’impostazione del lavoro c’è però anche l’assunto che la psicologia deve necessariamente procedere con una metodologia scientifica, il che la differenzia sostanzialmente dalla critica letteraria.
Il nesso tra follia (o comunque malessere psichico) e creatività era stato individuato e indagato già da Freud (cfr. le ricerche sulla Gradiva di Jensen, 1907; su Dostoevskij, 1928; sul Mosè di Michelangelo, 1914); esistono, di altri psicologi, studi su Van Gogh, su Leonardo, Leopardi.
D’altro canto sono esistiti artisti assolutamente “normali”, e comunque Giovanni Pascoli (su questo Andreoli è molto chiaro) non può essere ascritto a una vera e propria patologia psichica, ma semmai ad una personalità con alcune caratteristiche infantili e con un Edipo non risolto, una forte fragilità emotiva, e da ultimo una dipendenza dall’alcool che lo porterà alla morte. Di chi invece lo psichiatra dà una diagnosi (di isteria) è Maria, la sorella minore che diventerà deus ex machina della vita del poeta e dell’altra sorella, Ida, di due anni più grande di lei e di otto minore di Giovanni.
La contiguità tra psicoanalisi e arte è un fatto, e nel caso del poeta decadente tematiche come quella del “fanciullino” e una costellazione familiare rappresentata in tutta la sua complessità in moltissime liriche non possono che intrigare lo studioso dell’inconscio.
Le fonti della ricerca sono fonti letterarie, in primis, ma anche gli epistolari del Pascoli, tra cui molte lettere inedite; gli scritti della sorella Maria sul poeta (Lungo la vita di Giovanni Pascoli, Mondatori 1961), nonché l’osservazione diretta da parte dello psichiatra della casa di Castelvecchio e della tomba del poeta.
Andreoli ricostruisce con cura la storia familiare a partire dalla tragica notte del 10 agosto 1867, quando il padre Ruggero viene assassinato, fino al momento in cui Giovanni, ormai adulto e docente in via di affermazione professionale, riesce ad avere con sé a Massa le due sorelle minori togliendole dal collegio dove erano cresciute. A questo punto inizia il dramma: la forte attrazione, il legame morboso e intenso che nasce tra il poeta e le due sorelle ma in particolare con Ida, che viene rappresentata nella sua bellezza e carnalità dal poeta stesso in alcuni schizzi che il libro riporta come documenti di particolare interesse.
Schizzi e lettere che esprimono un sentimento non fraterno ma morboso e diventano la base dell’ipotesi di Andreoli: un legame d’amore e attrazione fisica tra Giovanni e Ida, un amore nevrotico con Maria, sublimato nel misticismo; l’equilibrio tra i tre elementi di questa nuova famiglia avrebbe rappresentato per Pascoli la riattualizzazione dell’amore edipico mediante la proiezione della figura della madre su Ida e la propria immedesimazione col padre morto: in questo modo finalmente il genitore prematuramente perso, rivivificato in lui, poteva prendersi cura della prole, rappresentata dalla piccola Maria.
La sorella minore però a un certo punto comincia a trafficare perché Ida vada in sposa: questo improvvisamente e apparentemente senza motivo…perché non sposarsi invece lei stessa, o far sposare Giovanni?
Anche a causa di una interruzione delle fonti epistolari, lo psichiatra ipotizza che Maria si sia accorta che Ida e Giovanni stavano per varcare o avevano varcato i confini leciti di un amore fraterno e abbia voluto riequilibrare il nucleo familiare espellendo Ida, destinata per la propria femminilità prepotente a diventare moglie e madre (cosa che l’asessuata Maria non sentirà mai il bisogno di fare).
Anche la sparizione delle lettere scritte dal Pascoli in vari mesi del 1894 viene attribuito alla volontà di Maria, custode dell’archivio Pascoli, di mantenere un’immagine dignitosa e positiva del fratello, di cui ad esempio cercherà negli anni a seguire di nascondere l’alcolismo.
Le lettere del 1895 mostrano un poeta in bilico tra i sentimenti per l’una e per l’altra sorella, che appaiono in opposizione: due legami esclusivi, violenti, tormentati da gelosie che di solito non trovano spazio in una famiglia d’origine, ma somigliano a quelle vissute in un amore di coppia.
La devozione di Maria al fratello è in realtà un amore mortifero, tanto è vero che Andreoli dimostra come le nozze combinate di Ida nel 1895 diventino per Giovanni l’inizio della fine: nonostante la fulgida carriera e i successi letterari in aumento, il poeta comincerà a bere nutrendo così la cirrosi epatica che lo porterà a morte, e trascorrerà il resto della sua vita (interrottasi nel 1912) vivendo affettivamente una situazione di crescente dolore, isolamento, chiusura nell’ambito soffocante della presenza di Maria, sconforto crescente testimoniato dalle numerose epistole ad amici e alla stessa Ida. Di altri eventi della vita sentimentale del Pascoli si registra soltanto un tentativo di sposare la cugina Imelde Morri, tristemente naufragato al secondo incontro tra i due, pare anche qui per l’intervento malevolo di Maria.
Certo la parte più “scabrosa” dell’ipotesi di Andreoli, quella dell’incesto con Ida, non è suffragata da prove oggettive e sicuramente una simile ricostruzione dei fatti nulla aggiunge alla bellezza delle poesie pascoliane e ai significati individuati dalla critica letteraria.
Ma Andreoli è appunto psichiatra, non critico né letterato né storico: la descrizione che egli fa delle sue visite nell’ultima casa di Pascoli, in particolare alla camera della religiosissima Maria e alla cappella dove è conservata la tomba del poeta, sebbene non oggettiva è affascinante e forse portatrice di verità indimostrabili ma intimamente indiscutibili: perturbante il particolare delle fessure nel sarcofago, talmente sottili che solo Maria, di corporatura minuta quasi come una bimba, poteva continuare a toccare la salma di quel fratello così amato e idealizzato che non doveva amare altri che lei.
Sex & Gender
Ho pescato il mio articolo basato sulla tesi di laurea in antropologia culturale ed avevo piacere "postarlo", in caso qualcuno se ne interessasse.
Sommario
Il seguente lavoro ha come obiettivo quello di cogliere l’idea di mascolinità occidentale, alla luce dell’attuale dibattito sul sesso e genere, prima inaugurato dal pensiero femminista, e dagli anni ’80, ripreso anche dalle scienze sociali.
Introduzione
Se il significato dell’essere uomo e donna rappresenta uno dei quesiti atavici della riflessione della specie umana, le risposte date lungo i secoli non sono mai state definitive; il motivo risiede nel fatto che ciò che appare ovvio tende a sottrarsi a una ricerca e problematizzazione scientifiche e in generale, nei complessi mutamenti storico-sociali che hanno investito uomini e donne, con forti ricadute sul proprio senso di sé e sul sistema economico, politico-sociale in cui sono inseriti.
Quando si parla di maschio o di femmina, non si parla automaticamente - e questo è l’elemento apparentemente banale, in verità intimamente rivoluzionario - di uomo o di donna: ciò che fa percepire ad un maschio e ad una femmina di essere un uomo e una donna rispettivamente è l’identità di genere.
1.DEFINIZIONE DEL CONCETTO DI IDENTITÀ DI GENERE
Nel 1968 lo psichiatra e psicanalista Stoller definì l’identità di genere come «…la conoscenza e la consapevolezza che il bambino o la bambina ha di essere rispettivamente maschio o femmina […], che è ben altra cosa del rispettivo sesso biologico, la percezione cioè, di avere degli organi genitali maschili o femminili tout court…».Quattro anni dopo Money, docente di pediatria e psicologia medica – lo stesso che aveva coniato il termine ruolo di genere, ovvero ciò che una persona dice o fa per mostrare di avere lo status di uomo o di donna - spiega il concetto d’identità di genere come: «L’individuazione, unità e persistenza dell’individuo personale come maschile e femminile o, in maggior o minor grado, ambivalente in particolare come la si sperimenta attraverso il senso di sé e il comportamento…» (Money ed Ehrhardt, 1974). Nel 1975 la Rubin in The traffic in women, introduce nel discorso scientifico il termine sistema di genere (sex-gender system), sulla scia delle studiose femministe, le prime ad interessarsi alla separazione concettuale di sesso biologico e genere sociale (Nadotti, 1996) e lo utilizza per riferirsi alla condizione femminile nei rapporti sociali ed economici tra uomini e donne. Da quel momento in poi nasce un acceso dibattito tra gli addetti ai lavori sull’origine del genere e su i suoi rapporti col sesso biologico, grossomodo polarizzato attorno alle due posizioni dei deterministi culturali/culturalisti e dei deterministi biologici. I primi sostengono che si diventi uomini o donne grazie all’intervento dei processi d’inculturazione e di socializzazione, puntando l’attenzione più sulle somiglianze fra i due sessi che non sulle loro differenze; i secondi, postulando un’irriducibile diversità fra i sessi, ascrivono la stessa a matrici genetiche, piuttosto che bio-endocrinologiche. Esistono argomenti cogenti che poggiano a favore sia dell’uno che dell’altro schieramento teorico, anche se la tendenza attuale pare andare nella direzione del culturalismo, senza negare le differenze fra corpi maschili e femminili e l’esperienza che se ne fa di essi. Alla luce di tutto ciò la relazione fra sesso e genere deve essere completamente riconsiderata: l’ipotesi che il sesso sia l’antecedente fondativo del genere non regge più, ma pure l’ipotesi che tra sesso e genere non vi sia alcun rapporto deve essere scartata, dato che la loro corrispondenza quale si riscontra nelle società umane è troppo frequente. La corrispondenza esiste, ma è tale per cui è il genere che precede il sesso, o meglio i due sessi sono il risultato di un’ottica di genere e ciò che viene determinato dall’essere maschio o femmina (uomo, donna, altro?) non è la natura a dirlo, è la società (Laqueur, 1992; Busoni, 2000).
2. MASCOLINITÀ, OVVERO LA RECENTE STORIA DI UN COSTRUTTO
Il pensiero occidentale ha sempre avuto due modalità apparentemente diverse di definire la dualità tra maschio e femmina, o viene privilegiato il paradigma della somiglianza o gli si preferisce quello dell’opposizione: sia nel primo che nel secondo caso si afferma la superiorità dell’uomo sulla donna.
Secondo Laqueur (1992), studioso di storia della medicina sulle teorie del corpo sessuato, è stato l’one sex model, il modello unisex o monossessuale, a prevalere nel pensiero fino all’inizio del XVIII secolo; dal XIX invece, viene adottato il paradigma dei due sessi opposti, detto anche modello bisessuale. Come fa notare Laqueur, il sesso o il corpo, prima del Secolo dei Lumi, veniva inteso come un epifenomeno, mentre il genere, che noi consideriamo una categoria culturale, era il dato primo e primordiale. L’uomo fino ad allora ha un sesso invisibile perché il fatto di essere tale non risiede necessariamente nella sua fisiologia, piuttosto nei suoi comportamenti, in quello che fa, nelle sue pratiche. Risale agli inizi dell’Ottocento la grande trasformazione della scienza, che porta con sé una completa revisione del modo di concepire la natura e il corpo umano, e la nuova visione delle differenze tra i sessi non risulta dalla nuova impostazione scientifica, quanto invece da processi di tipo sociale e politico (Bloch e Bloch, 1980). In questo periodo pensatori di orientamenti diversi cominciano a insistere sulla distinzione radicale fra i sessi, che essi basano sulle nuove scoperte biologiche. Dalla differenza di grado si passa così alla differenza per natura: ecco che dall’Illumunismo nasce il dimorfismo sessuale radicale e la concezione moderna della mascolinità, che verrà scalfita solo a partire dal femminismo.
Anche Seidler (1992), uno dei padri fondatori dei Men’s studies, considera la mascolinità occidentale un’esperienza emersa storicamente - nata nel corso del XVIII secolo - da un processo associativo, tra la concezione della Ragione così come viene data dagli illuministi, e gli ideali di progresso e di mascolinità; questo rapporto viene ad avere delle ricadute sulle categorie della natura umana, della teoria sociale, come pure sull’identità di genere. Se la società, a partire da questo periodo, viene considerata razionale e la facoltà razionale è appannaggio maschile, ecco che i meccanismi di sviluppo della mascolinità rappresentano anche i meccanismi di sviluppo della cultura. La mascolinità diventa così quel potere invisibile, perché la regola che vale per gli uomini è considerata semplicemente l’espressione della ragione e della normalità che – secondo l’autore - ha portato e porta tuttora, alla subordinazione delle donne e a una perdita di qualità delle esperienze maschili, per cui gli uomini sarebbero invisibili a loro stessi, abituati a pensarsi in termini di standard neutrale.
3. L’UOMO DI OGGI? DUE MODELLI DI VIRILITÀ
La letteratura sociopsicologica americana di matrice femminista e gran parte dei Men’s studies nel corso degli anni ‘80, nel tentativo di erodere la monolitica idea maschile nata dall’Illuminismo, ha affrontato lo studio dell’universo maschile fissando la questione su due modelli di virilità, “per eccesso” o “per difetto”. Per entrambi vengono messi in luce i caratteri di “manufatti” sociali, in risposta alle trasformazioni in campo sociale che hanno conosciuto le donne.
Il primo modello di virilità preso in considerazione è il cosiddetto macho-man, termine che nasce nel contesto messicano col quale si indica un tipo di mascolinità eccessiva, prepotente e aggressiva. Mosher e Thomkins, due psicologi statunitensi, in un articolo del 1988 illustrano il cosiddetto macho-man nel contesto nordamericano, dal punto di vista psicologico, individuando nei tratti violenti e prevaricatori, negli atti vandalici, nelle violenze sulle donne e negli scontri fisici tra rivali, le particolarità di questo tipo di mascolinità.
Secondo gli autori il macho-man crea, interpreta e risponde agli eventi che vive secondo delle regole previste da una sorta di copione personale, un insieme di norme sociali, modi di comportamento condivisi dal gruppo dei pari, dettati da un’ideologia che si forma durante l’infanzia con la socializzazione. Se tali regole nascono durante l’infanzia, continuano però ad arricchirsi e a modificarsi nel tempo, man mano che il ragazzo cresce ed entra in contatto col gruppo dei pari, quando impara a socializzare il suo copione con altri copioni simili. All’interno del gruppo dei pari vengono a crearsi dei veri e propri riti di passaggio, superati i quali si può essere considerati dei veri uomini: questi riti riguardano prove fisiche come il fare a botte per provare chi è più forte, o situazioni di pericolo dalle quali si deve dimostrare di saper districarsi (piccoli furti o borseggi) e infine prove di prestanza sessuale, dove si deve dimostrare la propria potenza con le donne.
Un fenomeno molto attuale, che anche in Italia ha fatto molto parlare, e che fa pensare fenomenologicamente al tipo del macho man è dato dal culto del corpo muscoloso, e l’esasperazione che ne fa il culturista.
La virilità che il culturista o più genericamente il “palestrato” incarna rappresenta una risposta scritta su ogni muscolo del suo corpo ad un incertezza che percepisce; qui il corpo, come emblema di forza, non è usato per distruggere fisicamente l’altro, la forma di aggressività è di tipo narcisistico, un voler schiacciare visivamente con un’immagine più forte, qualche cosa che si teme. In questi termini il palestrato è un macho man nonostante non usi la forza, poiché esercita il proprio potere tramite il corpo orgogliosamente esibito su altri corpi visivamente meno forti, come i corpi di uomini poco muscolosi, o sui corpi femminili. Se è vero che non tutti sono culturisti o palestrati, è vero anche che una buona parte di uomini frequenta molto assiduamente questi luoghi, e come abbiamo detto, uno dei possibili motori che li spinge (per le donne il discorso è diverso) in palestra sono da rintracciare nel potere simbolico del corpo come veicolo primo della loro identità continuamente bisognosa di conferme. È come se in un mondo dove i ruoli maschili e femminili sono in rapida evoluzione, meno statici e gerarchicamente ordinati rispetto al passato, gli uomini, o meglio, alcuni di essi, volessero riacquisire il proprio posto, attraverso la riappropriazione del proprio corpo, di un corpo marcatamente distinto da quello femminile, che viene vissuto con ambivalenza. Ecco probabilmente che il fenomeno del corpo scolpito può considerarsi compensatorio, infatti, sia nel culturista sia nell’uomo comune che frequenta la palestra, la risposta ad una crisi d’identità viene dalla somatizzazione del potere: l’esigenza di potere è come se parlasse attraverso la fisicità, con un effetto però imprevisto. Oltre ad essere infatti, un simbolo di forza, paradossalmente il ragazzo palestrato, si trova ad essere anche emblema di seduzione e bellezza, sviluppando così, dei comportamenti tradizionalmente ritenuti femminili, come l’attenzione ossessiva alla perfezione, la scrupolosità nel seguire diete, la lotta ai chili di troppo, che palesano la consapevolezza di un corpo usato per sedurre.
Altro tipo di comportamento machista lo si rintraccia nel fenomeno sociale dei bikers (o centauri), gli appassionati della motocicletta, che costituiscono per certi aspetti una comunità di individui con norme di comportamento, riti particolari. Come per il culturista anche per il biker l’uso della violenza non è la caratteristica che lo rende macho; in questo caso sono tutta una serie di orpelli esteriori e di atteggiamenti a testimoniare la sua rude virilità. Rifacendosi a un’idea di virilità alla James Dean o alla Easy rider, fatta di ribellione, voglia di libertà e insofferenza delle regole, i motociclisti uniscono alla passione del viaggio in moto la tematica dell’estraneazione, dell’isolamento per ritrovare una mascolinità più vera, ma anche una mutua condivisione e solidarietà. Elementi chiave sono l’ostentazione di oggetti e accessori che simboleggiano il loro essere veri maschi, un proprio codice di abbigliamento fatto di borchie, giubbotti e indumenti di pelle nera e, cosa ancor più distintiva, un tipo di birra (Bud) e di moto come l’Harley-Davidson che rappresenta una loro estensione. Le borchie rappresentano la forza, fungendo potenzialmente da arma, la birra simboleggia l’alcol, l’ubriachezza e la preferenza per un tipo di moto viene data, oltre a particolari prestazioni di potenza o di velocità, perché il suo rumore inconfondibile possa evocare un chiasso tipicamente maschile. I bikers formano una comunità che periodicamente si riunisce in raduni sparsi per tutto il mondo e si riconoscono tra loro, in base alla condivisione e socializzazione delle proprie regole. Da qui a considerare tutti quei maschi che condividono la passione della motocicletta, dei bikers, quanto a tipo di virilità, ne passa di strada.
Uomo molle invece, è un’espressione usata nei paesi nordici e indica il secondo modello maschile su cui ci si è soffermati, un tipo di mascolinità comparsa in quei paesi in cui l’uomo macho aveva più imperversato e dove il femminismo si era dimostrato politicamente più attivo, come Stati Uniti, Germania e i paesi anglosassoni, ma anche Francia e paesi scandinavi.
L’uomo molle dovrebbe essere colui che rinuncia di sua volontà ai privilegi maschili, rifiuta il potere, la preminenza del maschio che tradizionalmente gli viene conferita dall’ordine patriarcale. Domina la sua tendenza all’aggressività, rinuncia all’ambizione e alla carriera nella misura in cui queste gli impediscono di dedicarsi alla moglie e ai figli, è favorevole all’uguaglianza dell’uomo e della donna in tutti i campi. Egli succede al macho come sua assoluta negazione. Seidler (1992) e Connell (1996) fanno derivare questa tipologia dall’esperienza di quegli uomini che, sulla spinta del femminismo, avevano creduto di dover abbandonare ogni virilità e adottare i valori e i comportamenti femminili più tradizionali; all’uomo duro dalla femminilità rimossa subentrava l’uomo molle dalla mascolinità ignorata. Ma accanto agli uomini angosciati che non riuscivano ad assolvere più gli obblighi del loro ruolo tradizionale, agli scettici o a coloro che reagirono attaccando - come Roth (1996), uno dei primi a scagliarsi contro le femministe, tacciandole di stupidità e ipocrisia - alcuni uomini sono diventati femministi per ragioni politiche. I militanti dei Diritti dell’Uomo, i pacifisti, unitamente agli ecologisti, furono tra i primi a criticare i valori maschili portatori di guerra, competizione e dominio e dichiarando moralmente superiori quelli femminili come la vita, la compassione, il perdono…Ironia della sorte, mentre le donne reclamavano uomini meno macho e più dolci, loro stesse si spingevano in una direzione battagliera e conquistatrice, calcando le orme di coloro da cui erano state oppresse. Bernstein (1987) parla a proposito di “eroe femmina” attiva, competente e dura come gli uomini, artefice si se stessa che non intende conformarsi alla femminilità sognata dagli uomini. È in questo contesto che nasce il soft man riflessivo, premuroso, desideroso di attendere alle richieste della donna.
L’uomo molle è un uomo destrutturato (Badinter, 1993), confuso, che ha smarrito dei modelli di identificazione precisi e cerca di compensare questa sua debolezza strutturandosi a partire dall’esterno. Secondo l’autrice nel tentativo di una ristrutturazione compensatoria uomo molle e macho-man anche se ideologicamente agli antipodi, di fatto sono simili, sviluppando spesso comportamenti simili come ad esempio l’attenzione ossessiva per il corpo da parte dell’uno, contro la ricerca affannosa di empatia, sensibilità e remissività dell’altro. Ma la difficoltà è tale per cui labili paiono tutt’oggi i criteri per discriminare l’uomo molle da un qualsiasi altro modello di virilità; dato che non rappresenta una categoria sociologica ben definita, lo si vede bene quando ci si trasferisce dal contesto storico-culturale in cui era nato ad un altro. Comunque che si tratti di un’invenzione teorica o che ci si riferisca a una specificità locale passata, troviamo chi si è sempre scagliato e si scaglia tutt’ora contro questo tipo di mascolinità, basti pensare a personaggi come lo scrittore Bly (1992), lo psicanalista junghiano Risè (1993; 1998; 1999) in Italia, e alcuni tra coloro che in passato sono passati attraverso l’esperienza della negazione della virilità.
A tutt’oggi la tendenza - anche se è rischioso fare generalizzazioni - parrebbe essere una sorta di sincretismo di comportamenti e modelli, una miscela che nello smussamento di aspetti esasperati della virilità trova un nuovo modo di essere maschili; per cui i bikers puri e i culturisti puri, quanto ad atteggiamenti o a stile di vita, sembrerebbe stiano cedendo il posto a nuovi modelli maschili meno stereotipati o rigidi. Il discorso non è tanto facile da impostare, poichè variabili quali il livello di scolarità, la condizione socio-economica, la disponibilità culturale di libri, giornali, mass-media, il fatto che si viva in città o in zone rurali o di periferia spingono nella direzione di una maggiore o minore aderenza ad una mascolinità patriarcale o meno.
4. QUANDO LA MASCOLINITÀ PUÒ DANNEGGIARE I MASCHI
Da parte di alcuni studiosi si è cominciato a riflettere sulle conseguenze che un tipo di mascolinità rigida e machista possano avere sull’uomo comune, alla luce del fatto che nel promuovere tale immagine poco accessibile si potesse suscitare negli uomini la sensazione di essere incompleti o non all’altezza del ruolo. Questo si è verificato a partire dagli anni ’90 negli Stati Uniti, dove una certa stereotipizzazione di modelli virili forti, è avvenuta prima che altrove e dove è in corso, almeno in parte, uno sgretolamento degli stessi.
Già in un articolo scientifico del ’78, Harrison un docente di psicologia medica statunitense, arrivò ad ipotizzare che la socializzazione del ruolo maschile tradizionale assieme a specifiche determinanti biogenetiche, avrebbe portato l’uomo a un più alto tasso di mortalità rispetto alla donna, a causa dell’accesa competitività maschile, a una maggior quantità di stress accumulato e ad una maggior rigidità del suo ruolo sociale, che richiederebbe un numero sempre maggiore di prestazioni. Alcuni autori hanno insistito sui pericoli fisici che si possono incontrare quando ci si atteggi da “duri”: spesso fin da ragazzi si è indotti ad assumersi rischi che portano a incidenti, fumare e bere, guidare senza con sprezzo del pericolo automobili e moto, noti simboli di virilità. Inoltre gli sforzi che si chiedono agli uomini per essere conformi agli ideali stereotipati possono generare angosce, turbe affettive, paure del fallimento, comportamenti compensatori, e nella sfera privata, a vere e proprie ansie da prestazione per quanto riguarda la sessualità.
Lo psicologo Pollack, fondatore della Society for the study of Men and Masculinity di Harvard, in un suo lavoro sugli adolescenti maschi (1998[2000]) mette in guardia i loro genitori nei confronti dei danni che i miti maschili possono fare ai loro figli. La sua tesi è semplice: i ragazzi di oggi stanno attraversando una crisi, in apparenza sono sicuri, fiduciosi, in realtà non lo sono. Questa loro scissione avviene perché il loro comportamento viene valutato secondo un codice non scritto che stabilisce le regole e i modi del vero comportamento maschile: un insieme di modelli che di generazione in generazione - più o meno consapevolmente - viene tramandato e rafforzato dalla società, dai genitori e dai ragazzi stessi. Il codice maschile spinge a mostrarsi determinati e forti di fronte a ogni situazione, a non lasciar trapelare dubbi o emozioni, a creare un’armatura di atteggiamenti stereotipati e pregiudizi per nascondere qualsiasi debolezza. Il rischio è l’esclusione dal gruppo e la derisione dei pari, per cui molti ragazzi cercano uno sfogo in comportamenti violenti e autodistruttivi, nel consumo di alcol e droghe, oppure nella depressione , fino – nella peggiore delle ipotesi - al suicidio.
Ma c’è anche un altro problema: oggi le aspettative della società riguardo ai ragazzi sono conflittuali rispetto agli insegnamenti del codice maschile stesso, poiché se esso si basa sulla negazione dell’emotività e dei sentimenti, allorquando sia necessaria empatia, comprensione e una certa tenerezza verso le ragazze o coi genitori, i maschi non sono in grado di dare tutto ciò, e vengono accusati di freddezza, di impenetrabilità o di eccessivo autocontrollo.
Nel corso di una ricerca svolta a Belmont (Massachusset) da Pollack, basata su interviste e test psicologici somministrati a 150 ragazzi dai dodici ai diciotto anni, che sondava il loro atteggiamento verso ciò che significava per loro diventare uomini e su come un uomo avrebbe dovuto comportarsi in società, è risultato quanto segue. Dopo aver risposto alle domande della Scala di parità dei ruoli sessuali (King e King), in cui si chiedeva se erano d’accordo con affermazioni del tipo: “una madre è più idonea di un padre a cambiare il pannolino del bambino” o “l’uomo dovrebbe essere il capo famiglia”, la maggior parte dei ragazzi mostrano l’abbandono degli stereotipi legati alle funzioni tradizionali di uomini e donne. Quando poi agli stessi ragazzi venne sottoposta la Scala di atteggiamento verso il ruolo maschile tradizionale (Pleck), dove si chiedeva di rispondere a domande come: “un uomo merita il rispetto della moglie e dei figli” o “mi dà fastidio quando un ragazzo si comporta come una ragazza”, essi rivelavano una contraddizione, poiché in un test abbracciavano idee paritarie su uomini e donne, e nel secondo test mostravano un’idea conservatrice della virilità, sconfessando de facto il primo. Questi risultati mettono ben in evidenza la confusione dei ragazzi riguardo a ciò che la società si aspetta da loro come maschi. Il problema è che la nostra società lancia dei messaggi contraddittori e confusi sulla virilità e sul modo di educare i ragazzi, e quest’incertezza non risparmia neppure padri e madri. Spesso sono proprio i genitori che, nell’educare i figli maschi, preferiscono comportarsi secondo il codice maschile forte: infatti, per timore che il figlio crescendo, o rimanga ancorato alla madre e non sia capace di contare sulle proprie forze, o che non riesca a difendersi, oppure per paura che diventi omosessuale, essi preferiscono usare uno stile educativo che porti il figlio all’inespressività di sentimenti, a un senso di autosufficienza e di autonomia.
Occorre quindi cominciare a capire che l’ideale virile rigido e machista si paga caro e che la mascolinità sarà meno pericolosa per la serenità di un uomo soltanto quando gli permetterà di manifestare anche delle caratteristiche proprie alla femminilità. Occorre dare ai giovani maschi un nuovo modello di mascolinità, che lasci spazio al riconoscimento della loro vulnerabilità:
“I ragazzi devono imparare ad esprimere le loro emozioni, a chiedere aiuto, ad essere materni, a cooperare e a risolvere i conflitti in modo non violento; ad accettare atteggiamenti e comportamenti tradizionalmente etichettati femminili come necessari allo sviluppo di ogni essere umano, dunque a ridurre misoginia e omofobia. Il che equivale a dire che bisogna amare gli altri ragazzi e le ragazze.” (Thompson, 1989: 5, 8-9)
3. UNA DIVERSA MASCOLINITÀ? L’OMOSESSUALE
Un insieme di uomini, la cui collocazione all’interno del dominio maschile, crea tendenzialmente dei problemi per coloro che sono legati ad un’idea di mascolinità tradizionale e monolitica è rappresentata dai gay maschi.
Ma l’omosessualità risponde a un’identità di genere altra rispetto a quella maschile? Oppure l’omosessualità non incarna un’altra identità di genere, ma solo un diverso orientamento sessuale?
Assumendo la prima ipotesi, si utilizza l’orientamento per definire l’identità di genere e, dati due (o più) orientamenti, ecco due (o più) identità di genere; nel secondo caso, si prescinde dall’identità di genere (probabilmente perché si assume che sia quella maschile o ambivalente) e si analizzano solo i due orientamenti sessuali (omo ed etero). In linea generale, sia in passato che attualmente, coloro che hanno scritto di omosessualità - almeno in Italia - sembrano eludere la questione, grazie a omissis, o termini spesso dal significato non univoco: tendenza, atteggiamento, orientamento, identità psicosessuale, struttura di personalità... A questo proposito Del Favero e Palomba (1996) insistono nel distinguere tra comportamento, orientamento e identità omosessuale, ponendo l’accento sul fatto che non esiste il “tipo psicologico gay” (Lingiardi, 1997: 2), piuttosto varie omosessualità, così come esistono varie mascolinità eterosessuali. Il comportamento viene definito anche attività omosessuale, oppure esperienza che stimola una coscienza omosessuale; nell’orientamento omosessuale, la questione è più strutturata, in quanto compaiono nella sfera della coscienza una preponderanza di sentimenti, pensieri erotici e fantasie che investono un individuo dello stesso sesso, esso è “multidimensionale, situazionale, mutevole, contestuale” (1996: 58). In più nell’identità omosessuale, secondo diversi autori (Hooker, 1970) ci sarebbe l’autoaccettazione, un consistente e durevole autoriconoscimento dei significati che il comportamento e l’orientamento sessuale hanno per l’individuo stesso. In questo uso il termine identità omosessuale individua un tipo di identità sessuale (almeno nella letteratura psicologica), costituita da caratteristiche distintive, peculiari rispetto a quella eterosessuale. Alcuni autori come Palomba (1996) e altri (Isay, 1996) parlano di identità omosessuale con riferimento a una costellazione di esperienze peculiari, a un processo evolutivo specifico, di accettazione e riconoscimento personale che differenzia i gay dagli “etero”, anche se altri, senza negare un’identità omosessuale specifica, ribattono che in realtà lo sviluppo omosessuale non segue vie differenti da quello eterosessuale, ma siano entrambi due aspetti di un medesimo processo di crescita. La questione sembra invece risolversi in:
· uno slittamento dal concetto di identità di genere a quello di identità sessuale, senza alcuna chiarificazione del rapporto tra questi due termini,
· una tendenza a parlare di omosessualità in termini di comunità, subcultura, minoranza o identità sociale.
Una delucidazione sul primo punto pare venire da una parte della sessuologia (Bartolozzi, 2002), che distingue tra identità di genere, la quale, come ormai sappiamo, si riferisce alla nostra personale concezione di essere e di avere un ruolo di maschi o femmine, e identità di meta, che altro non sarebbe che la direzione verso cui rivolgiamo le pulsioni sessuali, quindi un sinonimo di orientamento. Identità di genere e identità di meta, assieme al ruolo di genere - quello che uno dice, pensa o fa per mostrare di appartenere ad un sesso o all’altro - andrebbero a costituire l’identità sessuale. Ecco che identità sessuale parte sempre da un’identità di genere, senza la quale non potrebbe esistere; i maschi (e le femmine) hanno una identità (di genere) maschile (o femminile) e teoricamente due identità di meta: eterosessuale e omosessuale (al limite tre, includendo quella bisessuale). Da questo punto di vista la questione parrebbe risolta con una doppio sbocco costituito dall’orientamento sessuale (identità di meta) che parte da una comune radice: l’identità di genere maschile, nel caso degli uomini. Ecco allora che i gay maschi, prima di essere tali (di avere cioè questo tipo di identità sessuale), sono uomini (hanno cioè un’identità di genere maschile) e questa è stata proprio la rivendicazione dei Gay’s studies sin dagli anni ’80 contro coloro che consideravano l’omosessualità come propria di una minoranza che in qualche misura differiva - in che misura nessuno è mai stato in grado di spiegarlo - dai maschi per antonomasia, quelli eterosessuali.
Herdt nel 1987 sosteneva che l’essere gay è diventato una combinazione, unica nella storia dell’umanità, di orientamento sessuale, identità sociale e movimento politico, e la maggioranza degli specialisti che trattano di omosessualità vi si riferiscono in questi termini, come identità sessuale che individua una minoranza sociale.
Sia che si consideri l’omosessualità un orientamento “naturale”, a pieno diritto accanto all’eterosessualità - postulando un solo genere - sia che la si consideri un’identità sociale diversa, propria di una subcultura, un importante quesito rimane senza risposta: gli uomini gay e gli uomini eterosessuali differiscono tra loro? E se sì, oltre all’oggetto d’amore, in che cosa consisterebbe questa loro differenza? Nessuno è a tutt’oggi in grado di trovare quel quid che spieghi in maniera convincente e definitiva la differenza tra una mascolinità gay ed una eterosessuale.
Conclusioni
Nell’affrontare lo studio sull’uomo, si è sempre partiti dal sistema da lui creato e dai meccanismi usati per mantenerlo, sistema che crea disuguaglianze e sfruttamenti più o meno sottili; tale constatazione di disuguaglianza - punto d’inizio degli studi femministi sui maschi - però, sembra nascondere una volontà d’ignorare l’oggetto d’indagine, accontentandosi dello stereotipo di uomo, emblema di sopruso e dominio. Per un verso non addentrarsi nelle ragioni del potere degli uomini e il non criticarle, spinge nella direzione dell’accennata stereotipizzazione del maschio “stile patriarcale”; per un altro causa l’assenza – specie in Italia – di studi sul genere che abbiano come soggetto principale la riflessione sulla mascolinità.
La svolta più importante fatta dai cosiddetti Men e Gay studies, che in Italia stentano ancora ad affermarsi, è stata quella di portare alla ribalta la “questione maschio”, nel senso di evidenziare la non consequenzialità tra biologia-anatomia del corpo maschile, genere ed orientamento sessuale e la conseguente messa in evidenza della pluralità dei modelli maschili. Ecco aperta la strada verso il relativismo del genere che trova però un limite invalicabile nell’esperienza corporea maschile, che è qualcosa di molto più complesso dell’anatomia maschile.
Parlando del fenomeno machista, ma anche dell’uomo molle è stato interessante vedere se una presunta fragilità, o una crisi dell’identità maschile poteva portare come risposta da un lato una calcatura dei luoghi comuni e delle qualità virilizzanti, e dall’altro un’abdicazione della virilità. Di fatto, nell’uomo comune tendenzialmente non si trova l’uno o l’altro aspetto, piuttosto una miscela, che da vita ad un modello con tratti caratteriali e di performance ambivalenti, se non androgine.
Si può pensare che la medesima polarizzazione tra una”ipervirilità” ed una “ipovirilità” sia tipica anche tra i gay, almeno tra quelli che calcando un’eccessiva effeminatezza o un eccessivo machismo, fanno pensare ad un problema tra la loro identità di genere e le immagini del maschio tradizionale. Per cui, per essere maschi, o lo si è alla massima potenza, oppure, causa incapacità di uno standard maschile sufficientemente adeguato, meglio rinunciarvi totalmente. Ecco che emerge l’idea di mascolinità come una performance, un lavoro fatto giorno dopo giorno, dove l’uomo eterosessuale deve dimostrare di essere attivo, coraggioso, forte, responsabile, ma anche sensibile e seducente, e dove il gay deve in più dimostrare di essere un uomo.
Come parte dell’adattamento al complesso ruolo che ci si attende dall’uomo, si assiste da parte sua – oggi più che in passato – ad un’attenzione per il proprio corpo, per la propria bellezza, per il modo di vestire, dove esigenze e specificità considerate tradizionalmente femminili diventano proprie anche dell’altro sesso, ma senza – in linea di massima – far seguire a ruota il sospetto di omosessualità. La vera novità di questi decenni è stata la riscoperta delle potenzialità seduttive legate al corpo maschile, di cui subito la pubblicità se ne è servita, veicolando un’immagine, per certi versi irraggiungibile, da emulare coi suoi ideali di perfezione corporea già cari alla Grecia classica. Se si parte dalla convinzione che la femminilità in un uomo o la mascolinità in una donna possano indurre all’omosessualità, di fatto non è stato riscontrato un aumento quantitativo – peraltro difficile da stimare – di gay o di lesbiche; semplicemente i gusti estetici hanno attraversato i generi, coinvolgendo allo stesso modo la popolazione eterosessuale ed omosessuale. Ragionando in termini tradizionali, gli uomini occidentali del terzo millennio rispetto ai loro padri sono più femminilizzati, anche perché hanno accanto loro donne più mascolinizzate, oltre al fatto che i modelli omosessuali sono più visibili e tendenzialmente permeabili.
Qual è allora dopotutto l’essenza del maschio umano, ammesso che ne esista una? Forse, con le parole di La Cecla è “…quel saperci fare, […] una maniera di essere a proprio agio dentro al proprio corpo sentito con maggiore o minore intensità” (2000:31). La risposta non può essere definitiva, innanzitutto perché troviamo nell’uomo le tracce delle sue esperienze, della cultura e della storia del proprio genere, che non vanno sempre univocamente nella medesima direzione; l’immagine che si evince è quella di uomo sedimentato da segni che, se da un lato ne hanno fatto perdere di vista le specificità legate al suo ruolo tradizionale, dall’altro lo hanno arricchito fino a complicarne l’identità.
Sommario
Il seguente lavoro ha come obiettivo quello di cogliere l’idea di mascolinità occidentale, alla luce dell’attuale dibattito sul sesso e genere, prima inaugurato dal pensiero femminista, e dagli anni ’80, ripreso anche dalle scienze sociali.
Introduzione
Se il significato dell’essere uomo e donna rappresenta uno dei quesiti atavici della riflessione della specie umana, le risposte date lungo i secoli non sono mai state definitive; il motivo risiede nel fatto che ciò che appare ovvio tende a sottrarsi a una ricerca e problematizzazione scientifiche e in generale, nei complessi mutamenti storico-sociali che hanno investito uomini e donne, con forti ricadute sul proprio senso di sé e sul sistema economico, politico-sociale in cui sono inseriti.
Quando si parla di maschio o di femmina, non si parla automaticamente - e questo è l’elemento apparentemente banale, in verità intimamente rivoluzionario - di uomo o di donna: ciò che fa percepire ad un maschio e ad una femmina di essere un uomo e una donna rispettivamente è l’identità di genere.
1.DEFINIZIONE DEL CONCETTO DI IDENTITÀ DI GENERE
Nel 1968 lo psichiatra e psicanalista Stoller definì l’identità di genere come «…la conoscenza e la consapevolezza che il bambino o la bambina ha di essere rispettivamente maschio o femmina […], che è ben altra cosa del rispettivo sesso biologico, la percezione cioè, di avere degli organi genitali maschili o femminili tout court…».Quattro anni dopo Money, docente di pediatria e psicologia medica – lo stesso che aveva coniato il termine ruolo di genere, ovvero ciò che una persona dice o fa per mostrare di avere lo status di uomo o di donna - spiega il concetto d’identità di genere come: «L’individuazione, unità e persistenza dell’individuo personale come maschile e femminile o, in maggior o minor grado, ambivalente in particolare come la si sperimenta attraverso il senso di sé e il comportamento…» (Money ed Ehrhardt, 1974). Nel 1975 la Rubin in The traffic in women, introduce nel discorso scientifico il termine sistema di genere (sex-gender system), sulla scia delle studiose femministe, le prime ad interessarsi alla separazione concettuale di sesso biologico e genere sociale (Nadotti, 1996) e lo utilizza per riferirsi alla condizione femminile nei rapporti sociali ed economici tra uomini e donne. Da quel momento in poi nasce un acceso dibattito tra gli addetti ai lavori sull’origine del genere e su i suoi rapporti col sesso biologico, grossomodo polarizzato attorno alle due posizioni dei deterministi culturali/culturalisti e dei deterministi biologici. I primi sostengono che si diventi uomini o donne grazie all’intervento dei processi d’inculturazione e di socializzazione, puntando l’attenzione più sulle somiglianze fra i due sessi che non sulle loro differenze; i secondi, postulando un’irriducibile diversità fra i sessi, ascrivono la stessa a matrici genetiche, piuttosto che bio-endocrinologiche. Esistono argomenti cogenti che poggiano a favore sia dell’uno che dell’altro schieramento teorico, anche se la tendenza attuale pare andare nella direzione del culturalismo, senza negare le differenze fra corpi maschili e femminili e l’esperienza che se ne fa di essi. Alla luce di tutto ciò la relazione fra sesso e genere deve essere completamente riconsiderata: l’ipotesi che il sesso sia l’antecedente fondativo del genere non regge più, ma pure l’ipotesi che tra sesso e genere non vi sia alcun rapporto deve essere scartata, dato che la loro corrispondenza quale si riscontra nelle società umane è troppo frequente. La corrispondenza esiste, ma è tale per cui è il genere che precede il sesso, o meglio i due sessi sono il risultato di un’ottica di genere e ciò che viene determinato dall’essere maschio o femmina (uomo, donna, altro?) non è la natura a dirlo, è la società (Laqueur, 1992; Busoni, 2000).
2. MASCOLINITÀ, OVVERO LA RECENTE STORIA DI UN COSTRUTTO
Il pensiero occidentale ha sempre avuto due modalità apparentemente diverse di definire la dualità tra maschio e femmina, o viene privilegiato il paradigma della somiglianza o gli si preferisce quello dell’opposizione: sia nel primo che nel secondo caso si afferma la superiorità dell’uomo sulla donna.
Secondo Laqueur (1992), studioso di storia della medicina sulle teorie del corpo sessuato, è stato l’one sex model, il modello unisex o monossessuale, a prevalere nel pensiero fino all’inizio del XVIII secolo; dal XIX invece, viene adottato il paradigma dei due sessi opposti, detto anche modello bisessuale. Come fa notare Laqueur, il sesso o il corpo, prima del Secolo dei Lumi, veniva inteso come un epifenomeno, mentre il genere, che noi consideriamo una categoria culturale, era il dato primo e primordiale. L’uomo fino ad allora ha un sesso invisibile perché il fatto di essere tale non risiede necessariamente nella sua fisiologia, piuttosto nei suoi comportamenti, in quello che fa, nelle sue pratiche. Risale agli inizi dell’Ottocento la grande trasformazione della scienza, che porta con sé una completa revisione del modo di concepire la natura e il corpo umano, e la nuova visione delle differenze tra i sessi non risulta dalla nuova impostazione scientifica, quanto invece da processi di tipo sociale e politico (Bloch e Bloch, 1980). In questo periodo pensatori di orientamenti diversi cominciano a insistere sulla distinzione radicale fra i sessi, che essi basano sulle nuove scoperte biologiche. Dalla differenza di grado si passa così alla differenza per natura: ecco che dall’Illumunismo nasce il dimorfismo sessuale radicale e la concezione moderna della mascolinità, che verrà scalfita solo a partire dal femminismo.
Anche Seidler (1992), uno dei padri fondatori dei Men’s studies, considera la mascolinità occidentale un’esperienza emersa storicamente - nata nel corso del XVIII secolo - da un processo associativo, tra la concezione della Ragione così come viene data dagli illuministi, e gli ideali di progresso e di mascolinità; questo rapporto viene ad avere delle ricadute sulle categorie della natura umana, della teoria sociale, come pure sull’identità di genere. Se la società, a partire da questo periodo, viene considerata razionale e la facoltà razionale è appannaggio maschile, ecco che i meccanismi di sviluppo della mascolinità rappresentano anche i meccanismi di sviluppo della cultura. La mascolinità diventa così quel potere invisibile, perché la regola che vale per gli uomini è considerata semplicemente l’espressione della ragione e della normalità che – secondo l’autore - ha portato e porta tuttora, alla subordinazione delle donne e a una perdita di qualità delle esperienze maschili, per cui gli uomini sarebbero invisibili a loro stessi, abituati a pensarsi in termini di standard neutrale.
3. L’UOMO DI OGGI? DUE MODELLI DI VIRILITÀ
La letteratura sociopsicologica americana di matrice femminista e gran parte dei Men’s studies nel corso degli anni ‘80, nel tentativo di erodere la monolitica idea maschile nata dall’Illuminismo, ha affrontato lo studio dell’universo maschile fissando la questione su due modelli di virilità, “per eccesso” o “per difetto”. Per entrambi vengono messi in luce i caratteri di “manufatti” sociali, in risposta alle trasformazioni in campo sociale che hanno conosciuto le donne.
Il primo modello di virilità preso in considerazione è il cosiddetto macho-man, termine che nasce nel contesto messicano col quale si indica un tipo di mascolinità eccessiva, prepotente e aggressiva. Mosher e Thomkins, due psicologi statunitensi, in un articolo del 1988 illustrano il cosiddetto macho-man nel contesto nordamericano, dal punto di vista psicologico, individuando nei tratti violenti e prevaricatori, negli atti vandalici, nelle violenze sulle donne e negli scontri fisici tra rivali, le particolarità di questo tipo di mascolinità.
Secondo gli autori il macho-man crea, interpreta e risponde agli eventi che vive secondo delle regole previste da una sorta di copione personale, un insieme di norme sociali, modi di comportamento condivisi dal gruppo dei pari, dettati da un’ideologia che si forma durante l’infanzia con la socializzazione. Se tali regole nascono durante l’infanzia, continuano però ad arricchirsi e a modificarsi nel tempo, man mano che il ragazzo cresce ed entra in contatto col gruppo dei pari, quando impara a socializzare il suo copione con altri copioni simili. All’interno del gruppo dei pari vengono a crearsi dei veri e propri riti di passaggio, superati i quali si può essere considerati dei veri uomini: questi riti riguardano prove fisiche come il fare a botte per provare chi è più forte, o situazioni di pericolo dalle quali si deve dimostrare di saper districarsi (piccoli furti o borseggi) e infine prove di prestanza sessuale, dove si deve dimostrare la propria potenza con le donne.
Un fenomeno molto attuale, che anche in Italia ha fatto molto parlare, e che fa pensare fenomenologicamente al tipo del macho man è dato dal culto del corpo muscoloso, e l’esasperazione che ne fa il culturista.
La virilità che il culturista o più genericamente il “palestrato” incarna rappresenta una risposta scritta su ogni muscolo del suo corpo ad un incertezza che percepisce; qui il corpo, come emblema di forza, non è usato per distruggere fisicamente l’altro, la forma di aggressività è di tipo narcisistico, un voler schiacciare visivamente con un’immagine più forte, qualche cosa che si teme. In questi termini il palestrato è un macho man nonostante non usi la forza, poiché esercita il proprio potere tramite il corpo orgogliosamente esibito su altri corpi visivamente meno forti, come i corpi di uomini poco muscolosi, o sui corpi femminili. Se è vero che non tutti sono culturisti o palestrati, è vero anche che una buona parte di uomini frequenta molto assiduamente questi luoghi, e come abbiamo detto, uno dei possibili motori che li spinge (per le donne il discorso è diverso) in palestra sono da rintracciare nel potere simbolico del corpo come veicolo primo della loro identità continuamente bisognosa di conferme. È come se in un mondo dove i ruoli maschili e femminili sono in rapida evoluzione, meno statici e gerarchicamente ordinati rispetto al passato, gli uomini, o meglio, alcuni di essi, volessero riacquisire il proprio posto, attraverso la riappropriazione del proprio corpo, di un corpo marcatamente distinto da quello femminile, che viene vissuto con ambivalenza. Ecco probabilmente che il fenomeno del corpo scolpito può considerarsi compensatorio, infatti, sia nel culturista sia nell’uomo comune che frequenta la palestra, la risposta ad una crisi d’identità viene dalla somatizzazione del potere: l’esigenza di potere è come se parlasse attraverso la fisicità, con un effetto però imprevisto. Oltre ad essere infatti, un simbolo di forza, paradossalmente il ragazzo palestrato, si trova ad essere anche emblema di seduzione e bellezza, sviluppando così, dei comportamenti tradizionalmente ritenuti femminili, come l’attenzione ossessiva alla perfezione, la scrupolosità nel seguire diete, la lotta ai chili di troppo, che palesano la consapevolezza di un corpo usato per sedurre.
Altro tipo di comportamento machista lo si rintraccia nel fenomeno sociale dei bikers (o centauri), gli appassionati della motocicletta, che costituiscono per certi aspetti una comunità di individui con norme di comportamento, riti particolari. Come per il culturista anche per il biker l’uso della violenza non è la caratteristica che lo rende macho; in questo caso sono tutta una serie di orpelli esteriori e di atteggiamenti a testimoniare la sua rude virilità. Rifacendosi a un’idea di virilità alla James Dean o alla Easy rider, fatta di ribellione, voglia di libertà e insofferenza delle regole, i motociclisti uniscono alla passione del viaggio in moto la tematica dell’estraneazione, dell’isolamento per ritrovare una mascolinità più vera, ma anche una mutua condivisione e solidarietà. Elementi chiave sono l’ostentazione di oggetti e accessori che simboleggiano il loro essere veri maschi, un proprio codice di abbigliamento fatto di borchie, giubbotti e indumenti di pelle nera e, cosa ancor più distintiva, un tipo di birra (Bud) e di moto come l’Harley-Davidson che rappresenta una loro estensione. Le borchie rappresentano la forza, fungendo potenzialmente da arma, la birra simboleggia l’alcol, l’ubriachezza e la preferenza per un tipo di moto viene data, oltre a particolari prestazioni di potenza o di velocità, perché il suo rumore inconfondibile possa evocare un chiasso tipicamente maschile. I bikers formano una comunità che periodicamente si riunisce in raduni sparsi per tutto il mondo e si riconoscono tra loro, in base alla condivisione e socializzazione delle proprie regole. Da qui a considerare tutti quei maschi che condividono la passione della motocicletta, dei bikers, quanto a tipo di virilità, ne passa di strada.
Uomo molle invece, è un’espressione usata nei paesi nordici e indica il secondo modello maschile su cui ci si è soffermati, un tipo di mascolinità comparsa in quei paesi in cui l’uomo macho aveva più imperversato e dove il femminismo si era dimostrato politicamente più attivo, come Stati Uniti, Germania e i paesi anglosassoni, ma anche Francia e paesi scandinavi.
L’uomo molle dovrebbe essere colui che rinuncia di sua volontà ai privilegi maschili, rifiuta il potere, la preminenza del maschio che tradizionalmente gli viene conferita dall’ordine patriarcale. Domina la sua tendenza all’aggressività, rinuncia all’ambizione e alla carriera nella misura in cui queste gli impediscono di dedicarsi alla moglie e ai figli, è favorevole all’uguaglianza dell’uomo e della donna in tutti i campi. Egli succede al macho come sua assoluta negazione. Seidler (1992) e Connell (1996) fanno derivare questa tipologia dall’esperienza di quegli uomini che, sulla spinta del femminismo, avevano creduto di dover abbandonare ogni virilità e adottare i valori e i comportamenti femminili più tradizionali; all’uomo duro dalla femminilità rimossa subentrava l’uomo molle dalla mascolinità ignorata. Ma accanto agli uomini angosciati che non riuscivano ad assolvere più gli obblighi del loro ruolo tradizionale, agli scettici o a coloro che reagirono attaccando - come Roth (1996), uno dei primi a scagliarsi contro le femministe, tacciandole di stupidità e ipocrisia - alcuni uomini sono diventati femministi per ragioni politiche. I militanti dei Diritti dell’Uomo, i pacifisti, unitamente agli ecologisti, furono tra i primi a criticare i valori maschili portatori di guerra, competizione e dominio e dichiarando moralmente superiori quelli femminili come la vita, la compassione, il perdono…Ironia della sorte, mentre le donne reclamavano uomini meno macho e più dolci, loro stesse si spingevano in una direzione battagliera e conquistatrice, calcando le orme di coloro da cui erano state oppresse. Bernstein (1987) parla a proposito di “eroe femmina” attiva, competente e dura come gli uomini, artefice si se stessa che non intende conformarsi alla femminilità sognata dagli uomini. È in questo contesto che nasce il soft man riflessivo, premuroso, desideroso di attendere alle richieste della donna.
L’uomo molle è un uomo destrutturato (Badinter, 1993), confuso, che ha smarrito dei modelli di identificazione precisi e cerca di compensare questa sua debolezza strutturandosi a partire dall’esterno. Secondo l’autrice nel tentativo di una ristrutturazione compensatoria uomo molle e macho-man anche se ideologicamente agli antipodi, di fatto sono simili, sviluppando spesso comportamenti simili come ad esempio l’attenzione ossessiva per il corpo da parte dell’uno, contro la ricerca affannosa di empatia, sensibilità e remissività dell’altro. Ma la difficoltà è tale per cui labili paiono tutt’oggi i criteri per discriminare l’uomo molle da un qualsiasi altro modello di virilità; dato che non rappresenta una categoria sociologica ben definita, lo si vede bene quando ci si trasferisce dal contesto storico-culturale in cui era nato ad un altro. Comunque che si tratti di un’invenzione teorica o che ci si riferisca a una specificità locale passata, troviamo chi si è sempre scagliato e si scaglia tutt’ora contro questo tipo di mascolinità, basti pensare a personaggi come lo scrittore Bly (1992), lo psicanalista junghiano Risè (1993; 1998; 1999) in Italia, e alcuni tra coloro che in passato sono passati attraverso l’esperienza della negazione della virilità.
A tutt’oggi la tendenza - anche se è rischioso fare generalizzazioni - parrebbe essere una sorta di sincretismo di comportamenti e modelli, una miscela che nello smussamento di aspetti esasperati della virilità trova un nuovo modo di essere maschili; per cui i bikers puri e i culturisti puri, quanto ad atteggiamenti o a stile di vita, sembrerebbe stiano cedendo il posto a nuovi modelli maschili meno stereotipati o rigidi. Il discorso non è tanto facile da impostare, poichè variabili quali il livello di scolarità, la condizione socio-economica, la disponibilità culturale di libri, giornali, mass-media, il fatto che si viva in città o in zone rurali o di periferia spingono nella direzione di una maggiore o minore aderenza ad una mascolinità patriarcale o meno.
4. QUANDO LA MASCOLINITÀ PUÒ DANNEGGIARE I MASCHI
Da parte di alcuni studiosi si è cominciato a riflettere sulle conseguenze che un tipo di mascolinità rigida e machista possano avere sull’uomo comune, alla luce del fatto che nel promuovere tale immagine poco accessibile si potesse suscitare negli uomini la sensazione di essere incompleti o non all’altezza del ruolo. Questo si è verificato a partire dagli anni ’90 negli Stati Uniti, dove una certa stereotipizzazione di modelli virili forti, è avvenuta prima che altrove e dove è in corso, almeno in parte, uno sgretolamento degli stessi.
Già in un articolo scientifico del ’78, Harrison un docente di psicologia medica statunitense, arrivò ad ipotizzare che la socializzazione del ruolo maschile tradizionale assieme a specifiche determinanti biogenetiche, avrebbe portato l’uomo a un più alto tasso di mortalità rispetto alla donna, a causa dell’accesa competitività maschile, a una maggior quantità di stress accumulato e ad una maggior rigidità del suo ruolo sociale, che richiederebbe un numero sempre maggiore di prestazioni. Alcuni autori hanno insistito sui pericoli fisici che si possono incontrare quando ci si atteggi da “duri”: spesso fin da ragazzi si è indotti ad assumersi rischi che portano a incidenti, fumare e bere, guidare senza con sprezzo del pericolo automobili e moto, noti simboli di virilità. Inoltre gli sforzi che si chiedono agli uomini per essere conformi agli ideali stereotipati possono generare angosce, turbe affettive, paure del fallimento, comportamenti compensatori, e nella sfera privata, a vere e proprie ansie da prestazione per quanto riguarda la sessualità.
Lo psicologo Pollack, fondatore della Society for the study of Men and Masculinity di Harvard, in un suo lavoro sugli adolescenti maschi (1998[2000]) mette in guardia i loro genitori nei confronti dei danni che i miti maschili possono fare ai loro figli. La sua tesi è semplice: i ragazzi di oggi stanno attraversando una crisi, in apparenza sono sicuri, fiduciosi, in realtà non lo sono. Questa loro scissione avviene perché il loro comportamento viene valutato secondo un codice non scritto che stabilisce le regole e i modi del vero comportamento maschile: un insieme di modelli che di generazione in generazione - più o meno consapevolmente - viene tramandato e rafforzato dalla società, dai genitori e dai ragazzi stessi. Il codice maschile spinge a mostrarsi determinati e forti di fronte a ogni situazione, a non lasciar trapelare dubbi o emozioni, a creare un’armatura di atteggiamenti stereotipati e pregiudizi per nascondere qualsiasi debolezza. Il rischio è l’esclusione dal gruppo e la derisione dei pari, per cui molti ragazzi cercano uno sfogo in comportamenti violenti e autodistruttivi, nel consumo di alcol e droghe, oppure nella depressione , fino – nella peggiore delle ipotesi - al suicidio.
Ma c’è anche un altro problema: oggi le aspettative della società riguardo ai ragazzi sono conflittuali rispetto agli insegnamenti del codice maschile stesso, poiché se esso si basa sulla negazione dell’emotività e dei sentimenti, allorquando sia necessaria empatia, comprensione e una certa tenerezza verso le ragazze o coi genitori, i maschi non sono in grado di dare tutto ciò, e vengono accusati di freddezza, di impenetrabilità o di eccessivo autocontrollo.
Nel corso di una ricerca svolta a Belmont (Massachusset) da Pollack, basata su interviste e test psicologici somministrati a 150 ragazzi dai dodici ai diciotto anni, che sondava il loro atteggiamento verso ciò che significava per loro diventare uomini e su come un uomo avrebbe dovuto comportarsi in società, è risultato quanto segue. Dopo aver risposto alle domande della Scala di parità dei ruoli sessuali (King e King), in cui si chiedeva se erano d’accordo con affermazioni del tipo: “una madre è più idonea di un padre a cambiare il pannolino del bambino” o “l’uomo dovrebbe essere il capo famiglia”, la maggior parte dei ragazzi mostrano l’abbandono degli stereotipi legati alle funzioni tradizionali di uomini e donne. Quando poi agli stessi ragazzi venne sottoposta la Scala di atteggiamento verso il ruolo maschile tradizionale (Pleck), dove si chiedeva di rispondere a domande come: “un uomo merita il rispetto della moglie e dei figli” o “mi dà fastidio quando un ragazzo si comporta come una ragazza”, essi rivelavano una contraddizione, poiché in un test abbracciavano idee paritarie su uomini e donne, e nel secondo test mostravano un’idea conservatrice della virilità, sconfessando de facto il primo. Questi risultati mettono ben in evidenza la confusione dei ragazzi riguardo a ciò che la società si aspetta da loro come maschi. Il problema è che la nostra società lancia dei messaggi contraddittori e confusi sulla virilità e sul modo di educare i ragazzi, e quest’incertezza non risparmia neppure padri e madri. Spesso sono proprio i genitori che, nell’educare i figli maschi, preferiscono comportarsi secondo il codice maschile forte: infatti, per timore che il figlio crescendo, o rimanga ancorato alla madre e non sia capace di contare sulle proprie forze, o che non riesca a difendersi, oppure per paura che diventi omosessuale, essi preferiscono usare uno stile educativo che porti il figlio all’inespressività di sentimenti, a un senso di autosufficienza e di autonomia.
Occorre quindi cominciare a capire che l’ideale virile rigido e machista si paga caro e che la mascolinità sarà meno pericolosa per la serenità di un uomo soltanto quando gli permetterà di manifestare anche delle caratteristiche proprie alla femminilità. Occorre dare ai giovani maschi un nuovo modello di mascolinità, che lasci spazio al riconoscimento della loro vulnerabilità:
“I ragazzi devono imparare ad esprimere le loro emozioni, a chiedere aiuto, ad essere materni, a cooperare e a risolvere i conflitti in modo non violento; ad accettare atteggiamenti e comportamenti tradizionalmente etichettati femminili come necessari allo sviluppo di ogni essere umano, dunque a ridurre misoginia e omofobia. Il che equivale a dire che bisogna amare gli altri ragazzi e le ragazze.” (Thompson, 1989: 5, 8-9)
3. UNA DIVERSA MASCOLINITÀ? L’OMOSESSUALE
Un insieme di uomini, la cui collocazione all’interno del dominio maschile, crea tendenzialmente dei problemi per coloro che sono legati ad un’idea di mascolinità tradizionale e monolitica è rappresentata dai gay maschi.
Ma l’omosessualità risponde a un’identità di genere altra rispetto a quella maschile? Oppure l’omosessualità non incarna un’altra identità di genere, ma solo un diverso orientamento sessuale?
Assumendo la prima ipotesi, si utilizza l’orientamento per definire l’identità di genere e, dati due (o più) orientamenti, ecco due (o più) identità di genere; nel secondo caso, si prescinde dall’identità di genere (probabilmente perché si assume che sia quella maschile o ambivalente) e si analizzano solo i due orientamenti sessuali (omo ed etero). In linea generale, sia in passato che attualmente, coloro che hanno scritto di omosessualità - almeno in Italia - sembrano eludere la questione, grazie a omissis, o termini spesso dal significato non univoco: tendenza, atteggiamento, orientamento, identità psicosessuale, struttura di personalità... A questo proposito Del Favero e Palomba (1996) insistono nel distinguere tra comportamento, orientamento e identità omosessuale, ponendo l’accento sul fatto che non esiste il “tipo psicologico gay” (Lingiardi, 1997: 2), piuttosto varie omosessualità, così come esistono varie mascolinità eterosessuali. Il comportamento viene definito anche attività omosessuale, oppure esperienza che stimola una coscienza omosessuale; nell’orientamento omosessuale, la questione è più strutturata, in quanto compaiono nella sfera della coscienza una preponderanza di sentimenti, pensieri erotici e fantasie che investono un individuo dello stesso sesso, esso è “multidimensionale, situazionale, mutevole, contestuale” (1996: 58). In più nell’identità omosessuale, secondo diversi autori (Hooker, 1970) ci sarebbe l’autoaccettazione, un consistente e durevole autoriconoscimento dei significati che il comportamento e l’orientamento sessuale hanno per l’individuo stesso. In questo uso il termine identità omosessuale individua un tipo di identità sessuale (almeno nella letteratura psicologica), costituita da caratteristiche distintive, peculiari rispetto a quella eterosessuale. Alcuni autori come Palomba (1996) e altri (Isay, 1996) parlano di identità omosessuale con riferimento a una costellazione di esperienze peculiari, a un processo evolutivo specifico, di accettazione e riconoscimento personale che differenzia i gay dagli “etero”, anche se altri, senza negare un’identità omosessuale specifica, ribattono che in realtà lo sviluppo omosessuale non segue vie differenti da quello eterosessuale, ma siano entrambi due aspetti di un medesimo processo di crescita. La questione sembra invece risolversi in:
· uno slittamento dal concetto di identità di genere a quello di identità sessuale, senza alcuna chiarificazione del rapporto tra questi due termini,
· una tendenza a parlare di omosessualità in termini di comunità, subcultura, minoranza o identità sociale.
Una delucidazione sul primo punto pare venire da una parte della sessuologia (Bartolozzi, 2002), che distingue tra identità di genere, la quale, come ormai sappiamo, si riferisce alla nostra personale concezione di essere e di avere un ruolo di maschi o femmine, e identità di meta, che altro non sarebbe che la direzione verso cui rivolgiamo le pulsioni sessuali, quindi un sinonimo di orientamento. Identità di genere e identità di meta, assieme al ruolo di genere - quello che uno dice, pensa o fa per mostrare di appartenere ad un sesso o all’altro - andrebbero a costituire l’identità sessuale. Ecco che identità sessuale parte sempre da un’identità di genere, senza la quale non potrebbe esistere; i maschi (e le femmine) hanno una identità (di genere) maschile (o femminile) e teoricamente due identità di meta: eterosessuale e omosessuale (al limite tre, includendo quella bisessuale). Da questo punto di vista la questione parrebbe risolta con una doppio sbocco costituito dall’orientamento sessuale (identità di meta) che parte da una comune radice: l’identità di genere maschile, nel caso degli uomini. Ecco allora che i gay maschi, prima di essere tali (di avere cioè questo tipo di identità sessuale), sono uomini (hanno cioè un’identità di genere maschile) e questa è stata proprio la rivendicazione dei Gay’s studies sin dagli anni ’80 contro coloro che consideravano l’omosessualità come propria di una minoranza che in qualche misura differiva - in che misura nessuno è mai stato in grado di spiegarlo - dai maschi per antonomasia, quelli eterosessuali.
Herdt nel 1987 sosteneva che l’essere gay è diventato una combinazione, unica nella storia dell’umanità, di orientamento sessuale, identità sociale e movimento politico, e la maggioranza degli specialisti che trattano di omosessualità vi si riferiscono in questi termini, come identità sessuale che individua una minoranza sociale.
Sia che si consideri l’omosessualità un orientamento “naturale”, a pieno diritto accanto all’eterosessualità - postulando un solo genere - sia che la si consideri un’identità sociale diversa, propria di una subcultura, un importante quesito rimane senza risposta: gli uomini gay e gli uomini eterosessuali differiscono tra loro? E se sì, oltre all’oggetto d’amore, in che cosa consisterebbe questa loro differenza? Nessuno è a tutt’oggi in grado di trovare quel quid che spieghi in maniera convincente e definitiva la differenza tra una mascolinità gay ed una eterosessuale.
Conclusioni
Nell’affrontare lo studio sull’uomo, si è sempre partiti dal sistema da lui creato e dai meccanismi usati per mantenerlo, sistema che crea disuguaglianze e sfruttamenti più o meno sottili; tale constatazione di disuguaglianza - punto d’inizio degli studi femministi sui maschi - però, sembra nascondere una volontà d’ignorare l’oggetto d’indagine, accontentandosi dello stereotipo di uomo, emblema di sopruso e dominio. Per un verso non addentrarsi nelle ragioni del potere degli uomini e il non criticarle, spinge nella direzione dell’accennata stereotipizzazione del maschio “stile patriarcale”; per un altro causa l’assenza – specie in Italia – di studi sul genere che abbiano come soggetto principale la riflessione sulla mascolinità.
La svolta più importante fatta dai cosiddetti Men e Gay studies, che in Italia stentano ancora ad affermarsi, è stata quella di portare alla ribalta la “questione maschio”, nel senso di evidenziare la non consequenzialità tra biologia-anatomia del corpo maschile, genere ed orientamento sessuale e la conseguente messa in evidenza della pluralità dei modelli maschili. Ecco aperta la strada verso il relativismo del genere che trova però un limite invalicabile nell’esperienza corporea maschile, che è qualcosa di molto più complesso dell’anatomia maschile.
Parlando del fenomeno machista, ma anche dell’uomo molle è stato interessante vedere se una presunta fragilità, o una crisi dell’identità maschile poteva portare come risposta da un lato una calcatura dei luoghi comuni e delle qualità virilizzanti, e dall’altro un’abdicazione della virilità. Di fatto, nell’uomo comune tendenzialmente non si trova l’uno o l’altro aspetto, piuttosto una miscela, che da vita ad un modello con tratti caratteriali e di performance ambivalenti, se non androgine.
Si può pensare che la medesima polarizzazione tra una”ipervirilità” ed una “ipovirilità” sia tipica anche tra i gay, almeno tra quelli che calcando un’eccessiva effeminatezza o un eccessivo machismo, fanno pensare ad un problema tra la loro identità di genere e le immagini del maschio tradizionale. Per cui, per essere maschi, o lo si è alla massima potenza, oppure, causa incapacità di uno standard maschile sufficientemente adeguato, meglio rinunciarvi totalmente. Ecco che emerge l’idea di mascolinità come una performance, un lavoro fatto giorno dopo giorno, dove l’uomo eterosessuale deve dimostrare di essere attivo, coraggioso, forte, responsabile, ma anche sensibile e seducente, e dove il gay deve in più dimostrare di essere un uomo.
Come parte dell’adattamento al complesso ruolo che ci si attende dall’uomo, si assiste da parte sua – oggi più che in passato – ad un’attenzione per il proprio corpo, per la propria bellezza, per il modo di vestire, dove esigenze e specificità considerate tradizionalmente femminili diventano proprie anche dell’altro sesso, ma senza – in linea di massima – far seguire a ruota il sospetto di omosessualità. La vera novità di questi decenni è stata la riscoperta delle potenzialità seduttive legate al corpo maschile, di cui subito la pubblicità se ne è servita, veicolando un’immagine, per certi versi irraggiungibile, da emulare coi suoi ideali di perfezione corporea già cari alla Grecia classica. Se si parte dalla convinzione che la femminilità in un uomo o la mascolinità in una donna possano indurre all’omosessualità, di fatto non è stato riscontrato un aumento quantitativo – peraltro difficile da stimare – di gay o di lesbiche; semplicemente i gusti estetici hanno attraversato i generi, coinvolgendo allo stesso modo la popolazione eterosessuale ed omosessuale. Ragionando in termini tradizionali, gli uomini occidentali del terzo millennio rispetto ai loro padri sono più femminilizzati, anche perché hanno accanto loro donne più mascolinizzate, oltre al fatto che i modelli omosessuali sono più visibili e tendenzialmente permeabili.
Qual è allora dopotutto l’essenza del maschio umano, ammesso che ne esista una? Forse, con le parole di La Cecla è “…quel saperci fare, […] una maniera di essere a proprio agio dentro al proprio corpo sentito con maggiore o minore intensità” (2000:31). La risposta non può essere definitiva, innanzitutto perché troviamo nell’uomo le tracce delle sue esperienze, della cultura e della storia del proprio genere, che non vanno sempre univocamente nella medesima direzione; l’immagine che si evince è quella di uomo sedimentato da segni che, se da un lato ne hanno fatto perdere di vista le specificità legate al suo ruolo tradizionale, dall’altro lo hanno arricchito fino a complicarne l’identità.
giovedì 15 febbraio 2007
dimenticavo...
Ah, dimenticavo...il nome Olistico-paranoico è un conio del mio tutor di tirocinio che si è riferito in questi termini per indicare la mia propensione, in materia di valutazione degli elaborati scritti (temi), a prescindere da qualunque griglia di valutazione pseudo -scientifica.
Intro al blog
Questo blog rappresenta un esperimento e a dir il vero non ho ancora in mente che fisionomia debba avere; nel senso che non so se ospiterà i miei pensieri, scritti, riflessioni o i miei "deliri" di carattere astrologico-psicologico, oppure gli uni e gli altri.Vedremo...
Iscriviti a:
Post (Atom)